di Franco Belci del 5/12/2021
Il libro (Asterios edizioni) non è nato da un progetto studiato a tavolino, ma dall’attenzione civile e dalla curiosità critica verso una cesura epocale che è piombata sulle nostre vite. Essa mi ha spinto a recuperare le reminiscenze della mia formazione di studioso di storia e a rispolverare gli strumenti dell’analisi e della ricerca, applicandoli alle modalità del lavoro “in progress”. Così ho raccolto e analizzato molti materiali dalla stampa, dalla letteratura e dal web, ho scritto, sui quotidiani regionali ma anche per questo sito, diversi interventi di riflessione, fino ad accorgermi che a quelle riflessioni si poteva dare un filo di sistematicità che ha collegato convinzioni politiche maturate in questi ultimi anni, e letture, recenti e non, che mi hanno suggerito direzioni da seguire e orizzonti da esplorare. La pandemia costituisce infatti un terreno del tutto incognito, per i suoi sviluppi ed i suoi effetti, rispetto alla nostra storia contemporanea, e ci ha colto del tutto impreparati, mettendo radicalmente in discussione la concezione del progresso come infinita crescita economica. In Italia il Covid 19 ha impattato su una società già sfibrata dalla crisi economica, dalla mancanza di coesione sociale e dalla debolezza e autoreferenzialità della politica, attestate dai tassi, sempre più alti, di astensionismo elettorale. Se, in una prima fase, è stato comprensibile lo smarrimento di fronte ad un evento imprevedibile, successivamente i governi che si sono succeduti hanno affrontato l’emergenza, sul fronte sociale, quasi esclusivamente con gli strumenti ordinatori della burocrazia, senza alcuna capacità di prospettare al Paese una visione che non coincidesse con l’emergenza stessa. Lo slogan “non saremo più come prima” si è progressivamente trasformato nel suo contrario: la volontà cioè di riportare le lancette al punto di partenza. Il vaccino ha rappresentato un’arma irrinunciabile per contenere la pandemia ed evitare il collasso del sistema sanitario. Ma è stato un errore non affiancare ad esso tutta una serie di misure di prevenzione capaci di incidere sulla possibilità di diffusione del contagio, con particolare riguardo agli ambienti di lavoro, alle scuole e ai trasporti, come oggi si può distinguere ad occhio nudo. Lo strumento del green pass, soluzione ragionevole per consentire l’apertura di tutte quelle attività rimaste bloccate durante il lockdown, per le quali gli assembramenti sono inevitabili e i controlli impossibili, si è progressivamente trasformato da strumento di prevenzione in forma di pressione sempre più invasiva, che ha finito per impattare col diritto al lavoro. Si sono così formati due fronti ideologici e si è alzato un muro di incompatibilità tra coloro che vedono nel vaccino l’unica possibile via d’uscita e coloro che si sono schierati, con diverse motivazioni e una diversa intensità di azione, contro la certificazione verde, fino a cogliervi, nelle frange più ideologizzate, i presupposti per una “dittatura sanitaria”. Un muro che ha rotto amicizie, diviso famiglie, balcanizzato le relazioni, confuso i crinali politici, e rischia di bruciare ogni ragionamento che si muova al di fuori delle tesi precostituite, che esprima, come si cerca di fare in questo libro, un’autonoma riflessione sui fatti, sulle singole scelte del governo, sulle reazioni e sulle motivazioni di chi ha portato la protesta in piazza. In questo contesto, l’orizzonte della politica si è bloccato sulla pandemia e la politica stessa, attestando il proprio fallimento, ha ceduto il passo alla tecnocrazia. Per evitare la crisi della democrazia legata al protrarsi di un’infinita emergenza è necessario riscoprire le possibilità di una cittadinanza attiva, i percorsi della partecipazione e ricostruire le ragioni dello stare assieme, partendo dal basso, dalle comunità locali, dall’impegno personale e dalle scelte piccole solo in apparenza. Ma per costruire una società più giusta, più coesa, impegnata nella salvaguardia dell’ambiente, più attenta ai settori deboli, aperta alla cultura e alla tolleranza, è inevitabile mettere in discussione il modello di sviluppo neoliberista, basato sulle diseguaglianze, sulla finanziarizzazione dell’economia, sul profitto a breve. E serve riscoprire il filo che lega passato, presente e futuro, recuperando il “pensiero lungo” di chi, come Enrico Berlinguer e Alexander Langer, aveva intuito fin dagli anni Settanta la necessità di individuare un progetto sociale alternativo. E quel pensiero appare oggi indispensabile per percorrere il crinale del progresso sociale contrapponendolo alla logica di uno sviluppo economico fine a se stesso e utile solo alla minoranza più ricca in Italia e nel mondo.